Il critico letterario Attilio Momigliano (1883-1952), docente universitario, accolse nel suo metodo critico i princìpi dell’estetica crociana, a cui unì una forte e pacata tensione morale. Firmatario del Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce nel 1925, venne espulso dall’università nel 1938 in seguito alle leggi razziali fasciste.
Può essere interessante confrontare questa lettura della poesia di Leopardi con quelle date dalle antologie scolastiche dei nostri giorni, e osservare cosa e quanto è cambiato nell’approccio al testo poetico.
L’orizzonte della poesia del Leopardi è Recanati, carcere e insieme nido di sogni. Le condizioni del Leopardi di fronte a Recanati e di fronte alla vita sono un po’ quelle del Leopardi di fronte alla siepe «che da tanta parte Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude». È il senso del limite che gli dà il senso dell’infinito; è la prigione – piccola come Recanati, o grande come la terra – che gli dà il senso e la nostalgia della libertà sconfinata.
Il Leopardi dice che la siepe gli è cara; ma anche Recanati gli è – inconfessatamente – cara. Quell’angusta Recanati, maledetta nelle Ricordanze e in tanti passi di prosa, s’insinua dovunque nella sua poesia, povero sfondo di desideri immensi, di orizzonti sconfinati.
Il punto di partenza dei canti è spesso un aspetto famigliare alla vita del poeta: la siepe del monte Tabor, la luna che si posa sui tetti e sugli orti di Recanati, il passero che canta sulla torre di Sant’Agostino, la giovinetta che tesse e canta, le stelle che scintillano sul giardino paterno, i contadini che smettono il lavoro. Partito da questi umili ricordi, il poeta si smarrisce istintivamente in grandi pensieri: l’infinito, l’annullamento del tutto, il tramonto della giovinezza beata e non goduta, le illusioni e i disinganni della vita, la vana attesa della gioia.
Nei canti è continuo e spontaneo questo passaggio dal finito all’infinito; continua questa sensazione di essere dinanzi ad un’anima che con la sua immensità esaurisce la grandezza d’ogni cosa creata. Un senso d’insoddisfazione tormentosa, eppure, delineata nella più calma e più limpida delle melodie, s’insinua per tutti i canti del Leopardi: e perciò le due liriche che ne riassumono tutto l’ambito sono il Canto notturno, in cui tutti gli aspetti della vita sembrano al poeta uguali e senza significato, e l’Infinito, dove il poeta si dimentica e naufraga nell’immensità. Per saziare la sua anima non gli sarebbe bastato quello spaziare nell’universo che egli vagheggia per un momento nella fine del Canto notturno: solo l’annullamento di sé nell’infinito gli poteva essere dolce.
Un po’ di quest’infinito è concesso al Leopardi con le illusioni: massime fra tutte, l’amore e la giovinezza.
Ogni volta che parla delle illusioni e della giovinezza in cui esse s’incarnano, il Leopardi trova parole che non si dimenticano: gli occhi «ridenti e fuggitivi» di Silvia, «quel lume di gioventù», «quel confidente immaginare» di Nerina che passa nella vita come in una danza, gli «ameni inganni», coi quali egli parla come con creature vive. Egli ha creato per le illusioni, vane ma necessarie alla sua vita deserta, le espressioni che si creano per una persona con la quale si dividono le ore migliori dell’esistenza: da esse derivano l’incanto e la luce che splendono sulle Ricordanze e A Silvia e temperano il grigio malinconico delle altre liriche.
Le illusioni crescono sulle rovine della vita del Leopardi. La sua poesia è il profumo della sua sventura: anch’essa, come la ginestra del suo ultimo canto, cresce sull’arido suolo della vita e cerca con il suo profumo il cielo.
[Attilio Momigliano, La letteratura italiana, Storia ed antologia ridotte ad uso degli Istituti tecnici da Raffaele Spongano, vol. III, Milano-Messina, Principato, 1968]
[Immagini: copertina: Lkcl it / CC; panorama di Recanati: FAI – Fondo Ambiente Italiano]